l'altra
Il portone di legno era davanti a lei, sul lato opposto della strada. Muto.
L’altra era appena entrata sbattendolo dietro di se, chiudendola fuori. Rimase in attesa per alcuni minuti sotto il lampione, meditando nell’aria gelida e densa di smog la sua prossima mossa.
Era stato tutto molto improvviso, quasi un sogno.
Aveva desiderato per anni scappare da Roma. Andarsene, sola, per qualche giorno, lontano da tutti, dal lavoro, da sua madre, da Marco. In una città che non conosceva, per mescolarsi tra la folla e sparire.
Finalmente quattro giorni di ferie.
Aveva comperato un biglietto per il nord. Marco non era stato felice. Sarebbe voluto andare con lei. Ma Marco non discuteva mai. Con apatica rassegnazione l’aveva accompagnata alla stazione. Il bacio che le aveva dato era uno dei più freddi che avesse mai ricevuto. Erano come fratelli.
Il viaggio era stato meno lungo del previsto. Non importava se il nome della città era diverso da quello stampato sul biglietto. La sua non era una destinazione, era un rifugio. Così si sentiva più libera.
La pensione in cui si fermò non era molto distante dal centro. L’aveva scelta per il colore della camicetta della receptionist. Verde muschio. Anche le poltrone del salottino d’attesa erano verde muschio, di velluto. Le pareti invece rosa antico.
Era salita in camera e si era buttata sul letto. Le braccia aperte come il crocefisso appeso. Marco non le aveva fatto domande circa il suo improvviso cambiamento di destinazione. Tipico. Quell’uomo non si stupiva per nulla. Si era limitato a ripeterle che le voleva bene e che Lunedì sarebbe stato alla stazione, ad aspettarla.
Aveva fatto una doccia per liberarsi dell’odore del treno e dell’idea di Marco che la aspettava. Poi era uscita. La città sembrava in fermento. Si muoveva intorno a lei una massa informe di visi, cappotti, profumi e discorsi spezzati. Una donna grassa trascinava il figlio in lacrime per un polso. Due signori distinti, due avvocati pensò, sghignazzavano aspirando sigari speziati. Il saltimbanco aveva radunato intorno decine di spettatori interessati all’ennesimo trucco da baraccone.
L’altra apparve all’improvviso tra la folla. Portava un paio di pantaloni di flanella grigia, una giacca di pelliccia. Era identica a lei. La sua immagine riflessa in uno specchio. Sembrava avesse fretta di allontanarsi dalla promiscuità opprimente della strada. Per un attimo credette di perderla. Accelerò il passo. L’altra camminava in fretta, dieci metri almeno più avanti. Navigava tra la folla. Non sapeva se era stata vista a sua volta. Credeva di no e comunque questo non era importante. Almeno per ora. La vide entrare in un bar. Con la mano indicò un dolce alla crema. Il suo preferito. Pagò ed uscì. Un impulso improvviso. Entrò anche lei, si diresse dallo stesso barista. Un giovane bruno dalle spalle troppo larghe a sostenere un viso troppo ingenuo. Lui sorrise. Lei indicò il dolce alla crema.
- Ha molta fame vero? - scherzò il giovane. La prova le costò cara. All’uscita l’altra era scomparsa tra la gente.
Tornò alla pensione delusa e stanca. C’era un’altra receptionist. Se avesse visto lei la mattina non avrebbe preso la stanza. Forse per questo la mettevano la sera. Portava un vestito pervinca ed un filo di perle coltivate.
Marco l’aveva chiamata.
Era stato un errore dargli il numero di telefono. Si addormentò pensando all’altra. Chissà se era sola o tra le braccia di un uomo.
Il mattino dopo fu svegliata dallo scalpiccio delle donne delle pulizie sul corridoio. Doveva essere molto tardi. Si vestì in fretta. In centro assaporò più del giorno prima quel potersi mescolare tra le persone divenendo un tutt’uno con loro pur preservando la propria identità.
C’era un bel sole. Caldo. Camminò fino a mezzogiorno. Quando ormai iniziava a sentire fame si ritrovò davanti al bar dove la sera prima aveva visto l’altra. Per caso. Il barista giovane sembrò riconoscerla. O forse no. Lei comunque sorrise indicando un tramezzino. Tonno e pomodori. La strada ora era semideserta. Sentiva i rumori delle case. Le case parlavano dei loro padroni, delle loro vite fatte di cibo e telegiornali. Sbocconcellando il tramezzino avvicinava il naso alle vetrine. Guardava i vestiti. Li provava con la mente. Quel maglione costava troppo.
Entrò in una libreria. Aveva imparato ad amare i libri. Ne amava la forma, i colori, l’odore della carta stampata di fresco. Nell’aria c’era Bach. Le variazioni forse. Si avvicinò ad uno scaffale. Ad occhi chiusi assaporava il contatto con la carta, con l’impercettibile rilievo dei caratteri impressi.
Il rumore della porta che si apriva la distolse dai suoi pensieri.
Allora la vide. L’altra era lì quando era entrata. Aveva acquistato qualcosa ed ora era appena uscita. Contò fino a dieci. Così le aveva insegnato a fare suo nonno da bambina. Bisogna saper aspettare per gustare meglio ciò che si desidera. Suo nonno era saggio prima della malattia. Poi l’avevano rinchiuso in un ospizio per vecchi dementi. Quando sua madre parlava della malattia del nonno lo faceva usando la maiuscola; “Malattia” diceva.
Usci sulla strada. L’altra era in fondo, girava sulla destra.
La seguì. Cercava di tenersi a distanza. Non voleva che lei si accorgesse. Doveva vederle il viso doveva essere sicura che fosse lei, la sua sosia, l’altra se stessa che viveva una vita parallela, diversa ma identica alla sua. Imboccò un vicolo a sinistra ed iniziò a correre. Doveva riuscire a compiere il giro dell’isolato prima che l’altra fosse giunta alla fine dello stesso. Cosi l’avrebbe vista in volto. Il sangue le martellava le tempie, le gambe sembravano abbandonarla. Pochi metri la separavano dall’angolo. Dalla scoperta. Rallentò. L’altra era ferma a metà dell’isolato. Con le chiavi in mano cercava quella giusta. Aprì, scivolò all’interno, lasciò sbattere il portone.
Questo era il sogno. Anzi, era la realtà più strana di qualsiasi sogno.
Rimase alcuni minuti sotto il lampione, davanti al portone che aveva inghiottito la ragazza. Fissava la targa d’ottone. Lucida. Da quella distanza non riusciva a focalizzarne la scritta. Immaginava però di un qualche studio legale. O magari un architetto. A fianco, più vicino all’architrave la schiera dei citofoni. Attratta dal gioco di luce provocato dai raggi del sole sulla targa si avvicinò. Studio legale Cianfaldoni. Il portone non era completamente chiuso. Spinse lentamente. C’era un odore stantio di muffa e umidità. Sulla sinistra la gabbia metallica dell’ascensore le ricordava la prima volta che era stata allo zoo. Il leone non l’aveva impaurita. Il guardiano con i baffi alla Stalin si. L’uomo era la bestia, gli animali le povere vittime.
Salì le scale lentamente, passando la mano sul corrimano di legno di faggio. Era liscio al tatto, piacevole. Altre mani, altre storie erano passate su quel legno. Ne avevano smussato anche le più microscopiche asperità. Al quarto piano si fermò. La targhetta sulla porta diceva “ Cloe Ricciardi ”. Il suo nome. La testa le pulsava. Martellanti i pensieri si affacciavo dalle pieghe del cervello. Si accalcavano l’uno sull’altro precludendosi a vicenda uno sbocco verso l’esterno.
Allunga una mano Cloe Ricciardi verso il pulsante che porta il suo nome, il campanello di una casa che non è la sua, in una città che non è quella in cui ha vissuto fino a due giorni fa. Qualcuno si muove all’interno. Sente dei passi sul parquet. Felpati.
La porta si apre lentamente. Passano miliardi di secondi prima che sia aperta del tutto. La luce che filtra attraverso, sempre più densa rischiara il volto che ha davanti. Il suo volto riflesso in uno specchio.
***
Non carica mai la sveglia il pomeriggio. I suoi sensi anestetizzati dal tepore del riposo avvertono lo scorrere delle ore. Così Cloe emerge lentamente da quel bagno di sogno che riesce a ritagliarsi ogni giorno dalle due alle tre. Oggi la risalita è stata più repentina del solito. Seduta sul letto Cloe ricorda il sogno appena sfumato. Un’altra se stessa. Un’altra donna con il suo stesso nome, il suo stesso viso, la sua stessa storia. Ricorda che è scappata dalla routine dall’uomo che le voleva portare via la vita. Si chiama Marco. Anche lui.
Si alza. La giacca da camera che indossa nell’intimità del suo appartamento l’avvolge e la vizia. Nulla è più eccitante del proprio calore riflesso da un morbido tessuto di cachemire. Poggia il naso al vetro gelido della finestra. L’altra nel sogno era appostata sotto il lampione. Ora la strada è vuota. Un cane cammina immerso nei suoi pensieri randagi. D’un tratto si ferma. Annusa l’aria ghiacciata. Alza la zampa e con somma perizia canina informa coloro che in seguito passeranno di li che quello è il suo lampione. Prosegue poi trafelato fino a sparire nella nebbia del pomeriggio.
Cloe sorride sorniona. Chissà se il cane ha sentore dei sogni degli uomini. Forse col suo gesto non segna la sua proprietà ma indica agli umani i luoghi dove sostano i personaggi delle loro storie oniriche.
Il sogno l’ha decisa. Chiamerà Marco per rispondere alla sua domanda di matrimonio. Come? Con un no naturalmente. La sua libertà è troppo importante per dividerla con un uomo che riesce solo a farla godere quando sono a letto insieme. Talvolta.
L’altra, quella del sogno, le ha insegnato come deve fare, scappare da lui. Rifugiarsi in se stessa, cambiare per rimanere quella che è.
Cloe ride e piange insieme. Le sue lacrime le rigano il volto accaldato e liscio. Oggi diventa l’altra. Oggi è un’altra. Bisogna brindare.
Il frigorifero è vuoto. Solo un succo di pesca; e allora vada per il succo. Ghiacciato le scorre in gola e le ricorda, per una sorta di contrappasso, il grumo di sangue quasi coagulato che le scendeva da bambina quando la fragilità capillare la costringeva a bagnarsi i polsi per poi rimanere col naso all’insù fino alla sensazione di quel grumo caldo. In quei momenti si sentiva una cannibale di se stessa. Proprio come ora che ha fagocitato il suo io onirico prendendone la forza.
Suonano alla porta. Cloe percorre il soggiorno. I suoi passi sul parquet. Felpati.
Apre la porta, lentamente. Passano miliardi di secondi prima che sia aperta del tutto. La luce filtra attraverso, sempre più densa rischiara il volto che ha davanti. Il suo volto riflesso in uno specchio.
***
Una settimana fa una ragazza romana, Cloe Ricciardi, è scomparsa nel nulla. Nessuno ha avuto più notizie di lei dalla sera di martedì diciassette Novembre. L’ultimo che ha sentito la sua voce è il suo compagno. La ragazza si trovava in una città del nord Italia il cui nome ha poca importanza se non per il fatto che nella stessa città, nello stesso giorno un’altra giovane donna con lo stesso nome ha lasciato sparire le sue tracce.
L’altra era appena entrata sbattendolo dietro di se, chiudendola fuori. Rimase in attesa per alcuni minuti sotto il lampione, meditando nell’aria gelida e densa di smog la sua prossima mossa.
Era stato tutto molto improvviso, quasi un sogno.
Aveva desiderato per anni scappare da Roma. Andarsene, sola, per qualche giorno, lontano da tutti, dal lavoro, da sua madre, da Marco. In una città che non conosceva, per mescolarsi tra la folla e sparire.
Finalmente quattro giorni di ferie.
Aveva comperato un biglietto per il nord. Marco non era stato felice. Sarebbe voluto andare con lei. Ma Marco non discuteva mai. Con apatica rassegnazione l’aveva accompagnata alla stazione. Il bacio che le aveva dato era uno dei più freddi che avesse mai ricevuto. Erano come fratelli.
Il viaggio era stato meno lungo del previsto. Non importava se il nome della città era diverso da quello stampato sul biglietto. La sua non era una destinazione, era un rifugio. Così si sentiva più libera.
La pensione in cui si fermò non era molto distante dal centro. L’aveva scelta per il colore della camicetta della receptionist. Verde muschio. Anche le poltrone del salottino d’attesa erano verde muschio, di velluto. Le pareti invece rosa antico.
Era salita in camera e si era buttata sul letto. Le braccia aperte come il crocefisso appeso. Marco non le aveva fatto domande circa il suo improvviso cambiamento di destinazione. Tipico. Quell’uomo non si stupiva per nulla. Si era limitato a ripeterle che le voleva bene e che Lunedì sarebbe stato alla stazione, ad aspettarla.
Aveva fatto una doccia per liberarsi dell’odore del treno e dell’idea di Marco che la aspettava. Poi era uscita. La città sembrava in fermento. Si muoveva intorno a lei una massa informe di visi, cappotti, profumi e discorsi spezzati. Una donna grassa trascinava il figlio in lacrime per un polso. Due signori distinti, due avvocati pensò, sghignazzavano aspirando sigari speziati. Il saltimbanco aveva radunato intorno decine di spettatori interessati all’ennesimo trucco da baraccone.
L’altra apparve all’improvviso tra la folla. Portava un paio di pantaloni di flanella grigia, una giacca di pelliccia. Era identica a lei. La sua immagine riflessa in uno specchio. Sembrava avesse fretta di allontanarsi dalla promiscuità opprimente della strada. Per un attimo credette di perderla. Accelerò il passo. L’altra camminava in fretta, dieci metri almeno più avanti. Navigava tra la folla. Non sapeva se era stata vista a sua volta. Credeva di no e comunque questo non era importante. Almeno per ora. La vide entrare in un bar. Con la mano indicò un dolce alla crema. Il suo preferito. Pagò ed uscì. Un impulso improvviso. Entrò anche lei, si diresse dallo stesso barista. Un giovane bruno dalle spalle troppo larghe a sostenere un viso troppo ingenuo. Lui sorrise. Lei indicò il dolce alla crema.
- Ha molta fame vero? - scherzò il giovane. La prova le costò cara. All’uscita l’altra era scomparsa tra la gente.
Tornò alla pensione delusa e stanca. C’era un’altra receptionist. Se avesse visto lei la mattina non avrebbe preso la stanza. Forse per questo la mettevano la sera. Portava un vestito pervinca ed un filo di perle coltivate.
Marco l’aveva chiamata.
Era stato un errore dargli il numero di telefono. Si addormentò pensando all’altra. Chissà se era sola o tra le braccia di un uomo.
Il mattino dopo fu svegliata dallo scalpiccio delle donne delle pulizie sul corridoio. Doveva essere molto tardi. Si vestì in fretta. In centro assaporò più del giorno prima quel potersi mescolare tra le persone divenendo un tutt’uno con loro pur preservando la propria identità.
C’era un bel sole. Caldo. Camminò fino a mezzogiorno. Quando ormai iniziava a sentire fame si ritrovò davanti al bar dove la sera prima aveva visto l’altra. Per caso. Il barista giovane sembrò riconoscerla. O forse no. Lei comunque sorrise indicando un tramezzino. Tonno e pomodori. La strada ora era semideserta. Sentiva i rumori delle case. Le case parlavano dei loro padroni, delle loro vite fatte di cibo e telegiornali. Sbocconcellando il tramezzino avvicinava il naso alle vetrine. Guardava i vestiti. Li provava con la mente. Quel maglione costava troppo.
Entrò in una libreria. Aveva imparato ad amare i libri. Ne amava la forma, i colori, l’odore della carta stampata di fresco. Nell’aria c’era Bach. Le variazioni forse. Si avvicinò ad uno scaffale. Ad occhi chiusi assaporava il contatto con la carta, con l’impercettibile rilievo dei caratteri impressi.
Il rumore della porta che si apriva la distolse dai suoi pensieri.
Allora la vide. L’altra era lì quando era entrata. Aveva acquistato qualcosa ed ora era appena uscita. Contò fino a dieci. Così le aveva insegnato a fare suo nonno da bambina. Bisogna saper aspettare per gustare meglio ciò che si desidera. Suo nonno era saggio prima della malattia. Poi l’avevano rinchiuso in un ospizio per vecchi dementi. Quando sua madre parlava della malattia del nonno lo faceva usando la maiuscola; “Malattia” diceva.
Usci sulla strada. L’altra era in fondo, girava sulla destra.
La seguì. Cercava di tenersi a distanza. Non voleva che lei si accorgesse. Doveva vederle il viso doveva essere sicura che fosse lei, la sua sosia, l’altra se stessa che viveva una vita parallela, diversa ma identica alla sua. Imboccò un vicolo a sinistra ed iniziò a correre. Doveva riuscire a compiere il giro dell’isolato prima che l’altra fosse giunta alla fine dello stesso. Cosi l’avrebbe vista in volto. Il sangue le martellava le tempie, le gambe sembravano abbandonarla. Pochi metri la separavano dall’angolo. Dalla scoperta. Rallentò. L’altra era ferma a metà dell’isolato. Con le chiavi in mano cercava quella giusta. Aprì, scivolò all’interno, lasciò sbattere il portone.
Questo era il sogno. Anzi, era la realtà più strana di qualsiasi sogno.
Rimase alcuni minuti sotto il lampione, davanti al portone che aveva inghiottito la ragazza. Fissava la targa d’ottone. Lucida. Da quella distanza non riusciva a focalizzarne la scritta. Immaginava però di un qualche studio legale. O magari un architetto. A fianco, più vicino all’architrave la schiera dei citofoni. Attratta dal gioco di luce provocato dai raggi del sole sulla targa si avvicinò. Studio legale Cianfaldoni. Il portone non era completamente chiuso. Spinse lentamente. C’era un odore stantio di muffa e umidità. Sulla sinistra la gabbia metallica dell’ascensore le ricordava la prima volta che era stata allo zoo. Il leone non l’aveva impaurita. Il guardiano con i baffi alla Stalin si. L’uomo era la bestia, gli animali le povere vittime.
Salì le scale lentamente, passando la mano sul corrimano di legno di faggio. Era liscio al tatto, piacevole. Altre mani, altre storie erano passate su quel legno. Ne avevano smussato anche le più microscopiche asperità. Al quarto piano si fermò. La targhetta sulla porta diceva “ Cloe Ricciardi ”. Il suo nome. La testa le pulsava. Martellanti i pensieri si affacciavo dalle pieghe del cervello. Si accalcavano l’uno sull’altro precludendosi a vicenda uno sbocco verso l’esterno.
Allunga una mano Cloe Ricciardi verso il pulsante che porta il suo nome, il campanello di una casa che non è la sua, in una città che non è quella in cui ha vissuto fino a due giorni fa. Qualcuno si muove all’interno. Sente dei passi sul parquet. Felpati.
La porta si apre lentamente. Passano miliardi di secondi prima che sia aperta del tutto. La luce che filtra attraverso, sempre più densa rischiara il volto che ha davanti. Il suo volto riflesso in uno specchio.
***
Non carica mai la sveglia il pomeriggio. I suoi sensi anestetizzati dal tepore del riposo avvertono lo scorrere delle ore. Così Cloe emerge lentamente da quel bagno di sogno che riesce a ritagliarsi ogni giorno dalle due alle tre. Oggi la risalita è stata più repentina del solito. Seduta sul letto Cloe ricorda il sogno appena sfumato. Un’altra se stessa. Un’altra donna con il suo stesso nome, il suo stesso viso, la sua stessa storia. Ricorda che è scappata dalla routine dall’uomo che le voleva portare via la vita. Si chiama Marco. Anche lui.
Si alza. La giacca da camera che indossa nell’intimità del suo appartamento l’avvolge e la vizia. Nulla è più eccitante del proprio calore riflesso da un morbido tessuto di cachemire. Poggia il naso al vetro gelido della finestra. L’altra nel sogno era appostata sotto il lampione. Ora la strada è vuota. Un cane cammina immerso nei suoi pensieri randagi. D’un tratto si ferma. Annusa l’aria ghiacciata. Alza la zampa e con somma perizia canina informa coloro che in seguito passeranno di li che quello è il suo lampione. Prosegue poi trafelato fino a sparire nella nebbia del pomeriggio.
Cloe sorride sorniona. Chissà se il cane ha sentore dei sogni degli uomini. Forse col suo gesto non segna la sua proprietà ma indica agli umani i luoghi dove sostano i personaggi delle loro storie oniriche.
Il sogno l’ha decisa. Chiamerà Marco per rispondere alla sua domanda di matrimonio. Come? Con un no naturalmente. La sua libertà è troppo importante per dividerla con un uomo che riesce solo a farla godere quando sono a letto insieme. Talvolta.
L’altra, quella del sogno, le ha insegnato come deve fare, scappare da lui. Rifugiarsi in se stessa, cambiare per rimanere quella che è.
Cloe ride e piange insieme. Le sue lacrime le rigano il volto accaldato e liscio. Oggi diventa l’altra. Oggi è un’altra. Bisogna brindare.
Il frigorifero è vuoto. Solo un succo di pesca; e allora vada per il succo. Ghiacciato le scorre in gola e le ricorda, per una sorta di contrappasso, il grumo di sangue quasi coagulato che le scendeva da bambina quando la fragilità capillare la costringeva a bagnarsi i polsi per poi rimanere col naso all’insù fino alla sensazione di quel grumo caldo. In quei momenti si sentiva una cannibale di se stessa. Proprio come ora che ha fagocitato il suo io onirico prendendone la forza.
Suonano alla porta. Cloe percorre il soggiorno. I suoi passi sul parquet. Felpati.
Apre la porta, lentamente. Passano miliardi di secondi prima che sia aperta del tutto. La luce filtra attraverso, sempre più densa rischiara il volto che ha davanti. Il suo volto riflesso in uno specchio.
***
Una settimana fa una ragazza romana, Cloe Ricciardi, è scomparsa nel nulla. Nessuno ha avuto più notizie di lei dalla sera di martedì diciassette Novembre. L’ultimo che ha sentito la sua voce è il suo compagno. La ragazza si trovava in una città del nord Italia il cui nome ha poca importanza se non per il fatto che nella stessa città, nello stesso giorno un’altra giovane donna con lo stesso nome ha lasciato sparire le sue tracce.
Labels: racconti
2 Comments:
Fianlmente mi sono fermata, è da molti giorni che volevo leggere questo racconto... più volte di sfuggita gli davo un'occhiata .. ma ogni volta c'era qualcos'altro che dovevo fare...
Oggi ho deciso di fermarmi e leggerlo.
Lo trovo bellissimo ...
davvero complimenti!
Un inchino,
Simo
Grazie Simo: per la tua perseveranza, per i tuoi commenti, per la tua poesia.
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